Alla scoperta dei confini della città con Francesco Careri

Un’intervista di Anna Maria Piccoli di Mulab, Associazione culturale a Roma, per il progetto #DiOtherCity.

source: cleanpng.com

Francesco Careri è architetto e Professore Associato presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Roma Tre. Dal 1995 è membro fondatore del laboratorio diArte Urbana Stalker Osservatorio Nomade, con cui sperimenta metodologie di intervento creativo nella città multiculturale e dell’abitare informale a Roma, prima con azioni di arte pubblica al Campo Boario, in seguito a Corviale con studi e progetti sulle microtrasformazioni operate dagli abitanti, in seguito nella città dei Rom, tra baraccopoli, campi attrezzati e auto recupero di spazi occupati.

Dal 2006 è titolare delCorso di Arti Civiche, un corso opzionale a struttura peripatetica che si svolge interamente camminando analizzando e interagendo in situ con i fenomeni urbani emergenti.

Dal 2012 è Direttore del Master Arti Architettura Città, poi dal 2016 co-Direttore dei Master Environmental Humanities e dal 2019 del Master PACS Arti Performative e Spazi Comunitari.

Dal 2016 è titolare del Laboratorio di Progettazione Architettonica e Urbana con cui sperimenta la strategia di abitare transitorio CIRCO – Casa Irrinunciabile per la Ricreazione Civica e l’Ospitalità

Francesco Careri, in tutta la tua attività professionale si legge un grande amore per ciò che si muove, agita e trasforma ai margini e ai confini della città. Credi che un turismo sostenibile nelle periferie sia possibile? E, se si, con quali strumenti, con quale narrazione?

Una domanda molto difficile, un turismo sostenibile… Ormai quasi tutto è sostenibile, mettiamo l’aggettivo sostenibile a quasi tutto quello di cui parliamo, poi bisogna vedere quanto lo è.

E’ la parola “turismo” che mi mette un po’ in difficoltà, nel senso che per me il turismo di solito è un’attività di consumo, del territorio, degli abitanti, delle pratiche e dei luoghi, quindi per essere veramente sostenibile deve esserci un coinvolgimento vero delle realtà,

non ci può essere un’associazione, una guida, un qualcuno che dal centro va in periferia a vedere lo zoo e a mostrare lo zoo, ma magari dovrebbe essere fatto un empowerment degli abitanti, affinché sia un’esperienza che nasca dal territorio ed è questa la cosa difficile da creare.

Di solito finisce che si va ad attivare questi luoghi, secondo me è più giusto andare a cercare, andare a vedere se ci sono delle persone che già hanno questa inclinazione, delle associazioni lavorano dal territorio e sul territorio, più che immaginare di prendere dei turisti che arrivano a Fiumicino con dei flyer e dirgli: “Ti porto al campo rom”, non funzionerebbe.

Dovrebbe essere un rom a decidere come e quando portare delle persone là dentro e cosa raccontargli e tra l’altro forse non tutti sono pronti ad entrare in un campo rom, perché magari hanno prima bisogno di fare un percorso loro.

Quindi come attivare un turismo in luoghi periferici? Periferia può voler dire tutto, per esempio a Roma può voler dire anche archeologia romana, andare a vedere le bellezze degli acquedotti e delle rovine romane in periferia e ci sono già delle guide e dei percorsi, però se uno volesse entrare nella parte un po’ più sommersa di quello che è il territorio secondo me serve un esperto, qualcuno che ha già questa inclinazione, che già lo fa a Barcellona, a Città del Messico, a New Dheli e a Londra e vuole conoscere il modo in cui si abitano le marginalità. Far consumare l’esperienza a delle persone che hanno mezzo pomeriggio per andare a vedere qualcos’altro oltre che il Colosseo io lo eviterei.

In quale modo, secondo te, si potrebbero coinvolgere in maniera corretta gli abitanti di un territorio periferico in un’operazione simile?

Vanno fatte delle operazioni di scouting, di lettura del territorio, bisogna andare a vedere quali sono le associazioni, se ci sono dei personaggi particolari, dei cantastorie, degli artisti, queste sono le persone migliori per accompagnare e far penetrare con profondità estetica e poetica un territorio. Come farlo? Ci vuole un sacco di tempo da perdere, bisogna mettersi al bar, chiacchierare, osservare, stare fermi, guardare che succede, trovare la persona giusta. Non c’è una ricetta vera e propria per andare a scoprire il territorio, secondo me perderci molto tempo è la metodologia migliore.

E poi camminare, perdersi, inciampare, entrare di nascosto in alcuni luoghi, conoscere delle persone, dico sempre: “cercare di prendere la città di sorpresa e lasciarsi sorprendere dalla città”, è come creare degli incontri fortuiti. Dopodiché portarsi delle persone dietro è sempre un po’ rischioso.

A Roma ci sono molti gruppi che fanno questo, Ottavo Colle, Mamma Roma, che sono coreografi, danzatori, poi Urban Experience, che fanno dei walkabout con le cuffiette. Camminano e parlano alle persone in cuffia, andando in giro per Corviale, per le periferie.

Secondo me però ci vuole un vero incontro, sedersi a tavola, mangiare insieme, avere uno scambio con gli abitanti, anche se questo poi è il Format che tra sardi si chiama “Pranzo col pastore”, vendere un’esperienza che poi alla fine è falsa, perché se scopri che quel pranzo si fa tutte le settimane, due, tre volte a settimana, capisci che quel pastore è un attore, alla fine, non fa nemmeno più il pastore, ma organizza pranzi per turisti.

Una vera esperienza però bisogna un po’ costruirla da soli. Io il consiglio che darei e non organizzarli. Ma sperare che ognuno faccia il suo giro e abbia la capacità di entrarci. Poi è bene avere sempre almeno un nome di una persona da andare a cercare, quella è la chiave con cui entrare in un quartiere.

Quali caratteristiche, capacità o funzione dovrebbe avere secondo te, questa figura che immaginiamo? Questa figura capace di ispirare e sperimentare nuove forme di esplorazione urbana. Non chiamiamola guida.

Secondo me deve essere una persona che lavora lì, che lavora con le persone, che questo lavoro non lo fa solamente nel portare delle persone lì, ma nel far crescere il territorio in diverse maniere. Deve essere un’attivista, una persona impegnata nell’empowerment del territorio, perché se fa solo da guida non sa neanche bene quello di cui si parla.

Perché andare a vedere non è il tutto, con gli occhi non si capiscono le cose, se non c’è qualcuno che racconta, qualcuno che spiega, qualcuno che incontri e con cui puoi avere una relazione vera, sempre che esista la realtà e la verità.

Io ho immaginato una serie di cose, c’è un progetto a cui sto lavorando adesso che si chiama “CIRCO – Casa Irrinunciabile per la Ricreazione Civica e l’Ospitalità.” Si tratta di andare nelle periferie, ma anche nel centro in realtà a riutilizzare il patrimonio dismesso, autorimesse degli autobus, caserme, a Roma ci sono 67 o 68 cinema chiusi e abbandonati, ospedali, insomma tutto ciò che oggi è chiuso ed in abbandono ed è un problema. Questo problema metterlo insieme ad altri problemi, quali appunto l’accoglienza dei migranti, gli studenti fuori sede, tutti quelli che sono gli abitanti temporanei della città, e siccome ho sempre pensato che non si possono fare solo servizi e non produrre alcun reddito, questi luoghi ibridi in cui vivono persone diverse che si scambiano competenze tra di loro, potrebbero essere controbilanciati economicamente dal turismo, cioè, parte di questi nuovi condomini interculturali potrebbero diventare anche degli Air B&B. Per persone a cui però interessa svegliarsi e far colazione con un africano, un musulmano, degli studenti.

Penso che ci sia un turismo che potrebbe essere incuriosito dal non andare in un B&B qualsiasi o in un hotel del centro o in un ostello per studenti, ma di voler vivere un’esperienza vera calata in una realtà dove abitano persone diverse. Secondo me quello potrebbe funzionare anche come parte remunerativa di reddito per qualcosa che poi invece offre servizi, perché non si può affittare una camera allo stesso prezzo a un turista e a un migrante. Se io andassi in una qualche città nel mondo e sapessi che posso andare in un posto strano, in cui incontro artisti, migranti, studenti, vecchi e bambini e che ogni giorno succedono delle cose strane, volentieri andrei a dormire lì.

Ritieni che gli strumenti e le possibilità che il digitale offre potrebbero essere di aiuto in questo processo e, se si, come?

Si sicuramente. Io non sono contrario al digitale e alla tecnologia. L’importante è che non tentino di svelare tutto. La difficoltà in tutto questo è come non consumare il territorio, come non consumare le comunità ed esporre, e attraverso la mappatura digitale è un attimo che ciò accada. Si dovrebbe provare a dare indizi, ma non a spiegare tutto, di produrre desiderio…

Produrre desiderio più che dare informazioni?

Esatto, volevo dire proprio questo. La tecnologia non è un male, dipende come la si usa.

Immagini positiva un’esperienza tipo gaming, una caccia al tesoro…

Per esempio, oppure hai un nome di una persona da cercare perché quello è il vecchietto o è il matto del villaggio da cui partire. Cercherei di farlo in modo più creativo.

Qualche esempio – anche in base alla tua esperienza sia di architetto, sia di professore universitario, sia di sperimentatore e ricercatore con il gruppo Stalker/Osservatorio Nomade, con trent’anni di camminate alle spalle – di area o sito periferico che meriterebbe di essere visitato e raccontato.

Il Pantheon! Secondo me è Roma Est la parte di città più interessante, in quel triangolo tra l’Appia e la Prenestina, prendendo dentro la Tuscolana e la Casilina.

Intanto lì c’è la più alta concentrazione di migranti, ma soprattutto c’è uno sfilacciamento urbano per cui in realtà la città è piena di vuoti, di marane, per dirla alla romana. Lì c’era per esempio tutto il progetto dell’area SDO, del Sistema Direzionale Orientale, dopo la tangenziale, che oggi è ancora una parentesi di pecore, polli, vacche e poi la città ricomincia dopo un po’.

In quella zona c’è la parte più informale della città, c’è un abitare temporaneo, c’è una quantità di persone diverse, basta prendere un tram per incontrare tutto il mondo salvo che dei romani. Non mi viene un posto in particolare, ti direi il Parco degli Acquedotti, perché attraversa un po’ tutto, una lunga passeggiata lungo gli acquedotti, perché poi gli acquedotti intersecano la città in vari punti e questo permette anche di leggere diversi tipi di tessuto urbano, diversi tipi di società, di abitanti.

Che altro posso dirti? Secondo me le occupazioni abitative oggi sono posti interessanti da vedere a Roma. Ne posso consigliare tre che sono Porto Fluviale a Ostiense, Spin Time e Metropolix, che è sulla Prenestina per l’appunto, perché sono dei luoghi che sono stati capaci – quanto illegalmente – di costruire delle pratiche dell’abitare diverso a Roma e sono dei veri condomini interculturali dove vivono arabi, sudamericani, esteuropei assieme a famiglie italiane. Insomma, sono piene di quello che penso sarà la vita nei prossimi anni, credo che i bambini che sono cresciuti lì siano molto più pronti ad affrontare il futuro dei nostri figli. Se si vuole vedere dove sta andando la città quelli sono posti interessanti, e di solito sono aperti allo scambio e all’incontro. Il Metropolix è aperto tutti i sabati mattina, Spin Time è aperto quasi tutti i giorni, con le attività che ospita al piano terra, Porto Fluviale anche ha una serie di aperture settimanali. Sono dei luoghi che seppure nati dall’antagonismo politico più forte, in realtà hanno una capacità di aprirsi e di farsi leggere dalla città. Il campo rom è un’esperienza che secondo me va fatta, perché comunque esistono…

Mi ci hai portato tu…

Perché poi Roma ha varie facce, poi uno può cercare anche i casinò di via Tiburtina perché gli interessa spendere e perdere soldi, oppure i luoghi della prostituzione. Ma ci sono dei luoghi pasoliniani, quelli dei film di Pasolini, di Mamma Roma, di Accattone, che uno pensa siano spariti e invece si sono solo spostati un po’ più in là.

Certi sono uguali, l’Idroscalo è quello, 2 novembre 1975…

Si, l’Idroscalo è quello. Le baracche ci sono ancora, se uno vuole andare a vedere come vivono oggi… Però che fai, porti un gruppo di turisti a vedere i baraccati? No… Oppure si perché sai come entrarci, sai come relazionarti. Però il tipo di turisti che porti devono essere forse quelli che non tirano subito fuori la macchinetta fotografica, ci deve essere proprio un’educazione.

E’ possibile un’urbanistica responsabile?

Gli urbanisti dovrebbero essere responsabili! Io lo spero… Il mondo non va più in quella direzione, l’urbanistica non ha più alcun peso rispetto ai flussi finanziari ed economici.

Ti faccio un esempio stupido, se si decide di fare un grande centro commerciale in un certo quartiere dove ci sono delle comunità che vivono lì da tanto tempo e che vanno forse protette, ma arrivano i soldoni e l’occupazione – e qui c’è tutta una retorica – quando c’è un flusso di qualche miliardo o centinaia di milioni che cala su un territorio, nessun sindaco, nessun amministratore è capace di dire di no, pure se nessun urbanista l’aveva previsto e certamente non è nel piano regolatore.

E queste cose sono capaci di sconvolgere un tessuto, una città, una comunità. E quindi a che servono gli urbanisti in questo mondo in cui tutto viene deciso dalle multinazionali non lo so. E’ molto difficile, cioè l’urbanista si deve iniziare ad occupare delle parti residuali oppure opporre resistenza a quest’altra urbanistica che arriva dal neoliberismo.

L’urbanistica responsabile oggi è un’urbanistica di resistenza e di invenzione e di creatività di altre cose che possono succedere nella città a prescindere da quella roba lì.

Potete guardare l’intervista completa qui.

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